l’impressionismo gina manès in cœur (jean epstein, … · la coquille et la clergyman, germaine...
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L’impressionismo
Pierre-Auguste Renoir, Jeanne Samary in abito scollato, 1877
Gina Manès in Cœur fidèle
(Jean Epstein, 1923)
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Nell’ambiente cinematografico francese, la banalità della
produzione media scatena nei giovani intellettuali il disgusto per
la superficialità delle storie e la mediocrità dello stile,
l’entusiasmo per quello che oggi si direbbe trash, la voglia di
perseguire una maggior profondità di contenuto e di indagare le
potenzialità ancora inespresse del nuovo linguaggio.
Salvador Dalí e Man Ray, Parigi 1934
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Già durante la guerra, almeno a partire dal 1917, gli intellettuali
francesi iniziano a valutare le possibilità di sviluppo artistico del
cinema. Luis Delluc, critico teatrale, diventa editore di Le Film,
una rivista cui collaborano Colette, Cocteau e Aragon e su cui
intervengono anche Germaine Dulac e Marcel L’Herbier; i suoi
scritti e l’attività di promozione dei cineclub, avranno notevole
un’influenza sullo sviluppo della tendenza impressionista.
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Germaine Dulac, approdata dal giornalismo
femminista al cinema nel 1914, gira nel 1919
La fête espagnole, sceneggiato dallo stesso
Delluc. Il giovane L’Herbier, incerto fra
avvocatura e diplomazia, musica e scrittura,
viene condotto dalla guerra in una fabbrica di
divise e infine nella sezione cinematografica
dell’esercito, dove apprende i primi rudimenti
tecnici. Mentre conosce Musidora, Delluc e
Vuillermoz, lavora per la Gaumont e poi in
proprio, realizzando nel 1923 L’Inhumaine, un
costoso e complesso film d’avanguardia.
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In questo primo gruppo di autori attivi nei
primi anni Venti, tutti legati da rapporti di
affinità spirituale e di collaborazione,
vanno inclusi anche Abel Gance, attore
teatrale che la guerra spinge verso la
regia cinematografica e Jean Epstein, un
immigrato franco-polacco che, studiando
medicina a Lione, si è ritrovato prima
segretario di Auguste Lumière e poi
assistente di Louis Delluc.
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Queste personalità artistiche sono state
accomunate in un movimento definito
«Impressionista» (termine oggi molto
discusso perché gli stili dei singoli autori
appaiono spesso il frutto di scelte
individuali più che di visioni condivise o
programmi codificati) da Langlois e
ripreso da Sadoul, per designare
analogie e differenze tra l’espressionismo
tedesco e il cinema francese degli anni
Venti, ma anche per marcare un divario
«interno» con l’area dell’Avanguardia.
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In quegli anni Parigi è infatti la capitale dell’arte e della cultura,
la patria elettiva di una geniale bohème di intellettuali e artisti
che provengono da ogni dove: il brasiliano Cavalcanti, l’italiano
Canudo, l’americano Man Ray, l’ungherese Lászlo Moholy-Nagy
e il boemo Bartosch, l’estone Kirsanoff e l’ucraino Deslaw, lo
svedese Eggeling, i russi Survage, Mosjoukine, Alexeïeff e Boris
Kaufman, gli spagnoli Dalì e Buñuel.
Midnight in Paris (Woody Allen, 2011)
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In quest’atmosfera esuberante e «scapigliata» si intreccia
l’opera di diverse personalità eccentriche e affiorano idee sul
cinema simili ma non sovrapponibili, che tuttavia condividono la
spinta a un radicale rinnovamento della cultura e una forte
attitudine alla sperimentazione.
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L’idea di un solido legame fra l’esperienza estetica moderna e le
forme linguistiche prospettate dal cinema si radica con facilità;
ma questo minimo comun denominatore non impedisce alle
nuove idee di spandersi in varie direzioni, rendendo improbabile
ogni classificazione rigorosa in «scuole» e movimenti.
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«Nessuno di noi - Delluc,
Epstein, Dulac e io stesso -
aveva la stessa visione estetica»
preciserà L’Herbier «ma
avevamo un interesse in
comune: tutti noi volevamo
definire la famosa “specificità
filmica”. Su questa ricerca
eravamo tutti d’accordo».
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L’appassionata esplorazione del cinema come forma d’arte - sia
che lo si consideri un genere espressivo autonomo oppure una
sintesi delle altre arti – porta all’individuazione di due principali
bersagli polemici.
La coquille et la clergyman, Germaine Dulac, 1928
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Sono infatti di ostacolo all’emergere di una coerente vocazione
artistica del cinema, secondo questi autori, da un lato la
condizione di banale intrattenimento mediante storie sommarie
e ripetitive e dall’altro la dipendenza dallo stile teatrale che si è
incardinata sui primi tentativi di fuga dalla ingenua semplicità
espressività cinematografica degli esordi.
La coquille et la clergyman, Germaine Dulac, 1928
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La volontà di staccarsi dall’affabulazione imperante, conformista
e grigia, percorre essenzialmente due strade. La prima è il
rinnovamento degli schemi narrativi con l’arricchimento delle
vicende drammatiche mediante sfumature psicologiche che
passano in primo luogo attraverso la scelta di immagini in grado
di fissare una determinata atmosfera, di catturare singole
impressioni che «svelino» la realtà oggettiva.
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Rifiuto del teatro
La seconda via per affermare lo spirito innovativo è il rifiuto della
convenzionalità del cinema dell’epoca, che rinuncia alla sua
peculiarità «visuale» per ispirarsi al teatro nella costruzione della
drammaturgia e dello spazialità. Suggestionati dal simbolismo,
molti giovani cineasti tendono a idealizzare il cinema come arte
trascendente che, osservando la realtà, ne rivela gli aspetti
intimi, i segreti e i misteri invisibili «a occhio nudo».
Ménilmontant (Dimitri Kirsanoff, 1926)
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L’impressionismo
I nuovi autori si sforzano pertanto di creare un cinema capace
non solo di narrare ma anche di «esprimere», di evocare il
mondo interiore delle emozioni, un cinema capace cioè di
«impressionare», elaborando una poetica cinematografica
innovativa che si guadagna la definizione di «impressionista»
proprio in virtù delle sue proposte di lingua e di stile che
accentuano i caratteri formali, descrittivi e visivi del film e danno
rilievo all’immagine, al ritmo, alla figurazione.
La caduta della casa Usher, Jean Epstein, 1928
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Fotogenia
L’autonomia delle nuove forme
espressive viene articolata sul
concetto di «fotogenia», che
Delluc riprende da Daguerre,
rielaborandolo come la “legge del
cinema” e definendolo come la
qualità che distingue l’immagine
filmica dall’oggetto originale:
trasformato in immagine, l’oggetto
acquista una nuova espressività,
rivelandosi allo spettatore in una
luce totalmente nuova.
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Fotogenia
Nel suo contributo più conosciuto, Photogénie (1920), Delluc
affronta un nodo teorico di grande rilievo designando con il
termine fotogenia la capacità della fotografia e poi del cinema di
far emergere l’assoluta naturalità del mondo attraverso mezzi
tecnici ed espressivi, strumenti cioè che agiscono senza imporsi
essi stessi all’attenzione.
Nel corso del tempo il termine cambia significato, arrivando a
designare le qualità intrinseche di una persona o di un oggetto
così come sono catturate dal cinema piuttosto che le capacità
del mezzo di arrivare alla occultando la propria mediazione.
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Fotogenia
Tuttavia l’intuizione di Delluc sulla naturalità assoluta cui può
condurre un uso «intensivo» della tecnica viene ripresa da
Germaine Dulac, anche se nel quadro del cinema «puro», che
persegue cioè l’autonomia da ogni forma narrativa letteraria e
teatrale, a favore di una dimensione prettamente visiva. La
nuova parola d’ordine è «movimento» (la capacità di restituire il
«ritmo» delle cose e delle immagini) ma il motivo di fondo è
analogo: la Dulac, lamentando che alle «vedute» dei Lumière si
siano avvicendate le «ricostruzioni drammatiche», afferma nel
1927 che «la ripresa del famoso treno sembra più vicina al
senso cinematografico: questa suggerisce una sensazione fisica
e visiva», mentre le altre propongono «intrecci senza emozioni».
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Fotogenia
Anche in questo caso il bersaglio è costituito dalla tecnica
narrativa elaborata dalla letteratura e dal teatro. Il cinema deve
liberarsi dal suo peso, scioglierne la presenza in un’attenzione
verso le cose; la strada può essere quella di un privilegio
accordato ai motivi visivi, fatti di luce, di forme e di ritmi; ma
l’obiettivo finale è quello di recuperare la pienezza dello
spettacolo della vita al di là delle mediazioni cui il dispositivo
cinematografico pure costringe. Dunque, la naturalità oltre la
tecnica, ovvero uno dei temi ricorrenti nell’estetica del
Novecento.
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Fotogenia
Affermerà Epstein: «Con la
nozione di photogénie è nata
l’idea del cinema come arte.
Come definire l’indefinibile
photogénie, se non col dire
che sta al cinema come il
colore sta alla pittura e il
volume alla scultura: è
l’elemento specifico di
quest’arte».
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L’inquadratura
Facendo leva sul concetto di fotogenia per chiarire il significato
da attribuire all’immagine filmica, gli impressionisti dunque si
concentrano in modo particolare sull’estetica dell’immagine. La
cattura delle qualità poetiche («fotogeniche») di oggetti e
personaggi durante l’azione drammatica fornisce un rilievo
particolare alla scelta e alla struttura delle inquadrature.
Autour de L’argent, Jean Dréville, 1928
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La tecnica
All’attenzione per gli oggetti si aggiunge poi il tentativo di
afferrare e manifestare, attraverso un filtro soggettivo, l’elemento
psicologico ed emotivo della realtà. Perciò gli impressionisti
cercano costantemente di creare atmosfere particolari,
promuovendo un notevole sviluppo dei mezzi linguistici in grado
di caricare le immagini di «senso metaforico» e rendere
«concreti» gli stati d’animo dei personaggi.
La caduta della casa Usher, Jean Epstein, 1928
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La tecnica
Nei loro film si trova infatti dispiegato tutto l’armamentario che la
tecnica del tempo può offrire: la scelta dei dettagli e di
angolazioni particolari, con l’uso del flou, dell’accelerazione e
del ralenti, il ricorso a specchi e lenti speciali per deformare le
inquadrature, la sovrapposizione alle chiusure ed aperture “a
iris”, il dosaggio delle luci per creare sensazioni visive particolari
e l’impiego del flash-back per rendere percorribile il confine tra
passato e presente, tra ricordo e fantasia.
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Gli oggetti
Il tentativo di costruire sulle immagini un nuovo linguaggio visivo
universale passa attraverso la sostituzione dei personaggi di
tipo teatrale, motivati e volitivi, con oggetti, paesaggi, sequenze
di piani che hanno il compito di suggerire o rammemorare
atmosfere, caratteri, azioni e comportamenti. Il precursore di
questa tendenza è proprio Delluc, con Fièvre (1921) e La
Femme de nulle part (1922), film con personaggi poco più che
pretestuosi, in cui il vero protagonista è l’ambiente e le immagini
cercano incessantemente un valore artistico.
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In una taverna di Marsiglia, la moglie del padrone riconosce in
un marinaio un suo vecchio amore. In breve tempo scoppia una
rissa furiosa che porta a un finale tragico. Le vicende sono
intrise di simbolismo e nelle scene si alternano l’azione in corso,
rimandi all’inizio del film ed episodi del passato.
Fièvre
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Una sconosciuta, trasportata dai ricordi, torna nella sua vecchia
casa, abitata da una giovane coppia in crisi (la moglie progetta
di fuggire con l’amante approfittando dell’assenza del marito) e,
ritrovando nel luogo e nella situazione il suo passato, viene
coinvolta emotivamente nella vicenda.
La Femme de nulle part
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La condivisione delle ipotesi di fondo del gruppo di giovani autori
radunato intorno a Delluc, saldate dall’idea che la manipolazione
dell’immagine sia la strada maestra per esprimere la soggettività
dei personaggi, scatena una gara nell’elaborazione di espedienti
tecnici sempre più «espressivi».
Si gira J’Accuse. Abel Gance è l’ultimo a destra
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La decima sinfonia
In particolare è Abel Gance, entrato giovanissimo nel mondo del
cinema e costantemente attratto dalla sperimentazione tecnica,
dalla ricerca formale e dagli effetti drammatici, a girare una sorta
di manifesto del movimento con La Dixième Symphonie (1918).
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La decima sinfonia
Nel film un musicista scrive una sinfonia così esaltante da essere
considerata il «seguito» della Nona di Beethoven. Gance si affida
alle immagini per restituire le emozioni suscitate dalla musica,
facendo largo uso di sovrimpressioni e dissolvenze e soluzioni di
montaggio che vanno oltre la semplice funzione narrativa.
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La Roue
Nel successivo La rosa sulle rotaie (1923) il regista si lancia in un
melodramma torbido e lunghissimo (iniziate nel 1919, le riprese
durano 16 mesi e producono un film di oltre 4 ore, che la Pathé
riduce e divide in più parti, rilasciando infine nelle sale l’edizione
di un’ora e mezza), in cui inserisce soluzioni di stile come quella
che esprime il turbamento della protagonista con un montaggio di
immagini di una durata inferiore al secondo.
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La Roue
Un ferroviere raccoglie una bambina tra i rottami di un treno
deragliato e la alleva come una figlia. Quindici anni dopo l’uomo,
segretamente innamorato della ragazza, è diventato un
ubriacone attaccabrighe e quando un ingegnere se la porta via
per sposarla, impazzisce di gelosia.
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La Roue
«Nonostante l’enfasi melodrammatica
ai limiti del ridicolo della storia, attinta
al romanzo Le Rail di Pierre Hamp, è
l’opera innovatrice di un cineasta
senza misura che “vedeva in grande”.
Nelle sequenze ferroviarie, grazie
all'uso del montaggio rapido (ma
anche in quelle di montagna),
trasforma il film in una sinfonia visiva,
in una “suite ritmica dell’acciaio
animato dall’uomo” (R. Canudo)».
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Napoléon
Nel successivo Napoléon (1927), oltre a esibire un’inusitata
smania di grandiosità, Gance continua a sperimentare e in una
sequenza di battaglia dei cuscini arriva a dividere lo schermo
prima in quattro poi in nove parti, mostrando in ciascuna un
punto di vista diverso per sottolineare la confusione della scena.
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Marcel L’Herbier Molto concentrata sulla
tecnica appare anche
l’opera di L’Herbier.
L’attenzione per i valori
figurativi e dinamici della
storia è visibile in El
Dorado (1921), la storia di
una ballerina violentata
che viene risolta
essenzialmente in termini
visivi con interessanti
soluzioni di montaggio e
di taglio delle immagini.
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il film contiene un altro esempio utile a capire il
concetto di fotogenia: il regista utilizza un filtro
per offuscare la figura della protagonista
mentre danza in un cabaret, onde sottolineare
il pensiero della donna verso il figlio lontano;
quando gli altri personaggi la richiamano al
mondo reale, il filtro scompare.
El Dorado
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L’Inhumaine Pur restando sempre
fondamentale in L’Herbier il
rapporto tra l’immagine e il
montaggio, inteso come
elemento produttore del ritmo
dell’opera, in L’Inhumaine
(Futurismo, 1924) il regista
opera un tale dispiegamento
di costumi, oggetti e ambienti,
attingendo a piene mani
nell’iconografia art déco, che
la scenografia diventa la vera
protagonista del film.
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la storia è un pretesto storia narrativa dell'impostazione
convenzionale e decadente, piena di cascami in stile Belle
époque. Un inventore innamorato dalla fatale e algida cantante
Claire Lescot (l’inumana) non riesce ad attirare la sua attenzione
se non simula il suicidio in un incidente automobilistico. Quando
sta per conquistarla, un maharajah geloso fa uccidere la donna
e all’inventore tocca riportarla in vita con un espediente.
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L’Inhumaine
Una parte interessante del film è il montaggio della scena della
corsa, in cui si vede uno dei primi esempi di soggettiva stilistica,
cioè un’inquadratura che mostra non solo ciò che il protagonista
vede ma anche il suo stato d’animo. Alla folle corsa in
automobile si alterna infatti la scena della cantante in trionfo,
con immagini che scorrono via velocemente, arrivando allo split
screen per dare l’idea della visione che fugge ai lati del veicolo.
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L’opera di L’Herbier è insomma caratterizzata da un interesse
scenografico, da un bisogno smodato di curare anche i minimi
dettagli dell'inquadratura e da una ricerca del dinamismo tramite
movimenti di macchina attenti e ricercati.
Marcel L’Herbier dirige Brigitte Helm sul set de L’argent (Autour de L’argent, Jean Dréville, 1928)
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L’Argent
La summa di questi caratteri è L’Argent (1929), il film tratto da
un romanzo di Zola che chiude il periodo più fruttuoso della sua
attività e ancora una volta rappresenta, più che un ritratto della
società borghese, un saggio di virtuosismo tecnico, un vero e
proprio shock visivo.
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Anche Epstein utilizza il
soggetto come un
pretesto per comporre
un film
«cinematografico» e
risolve spesso i drammi
in una specie di sinfonia
visiva. Ma nelle sue
opere l’interesse
formale di rado cancella
l’osservazione della
realtà umana e sociale.
Jean Epstein
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Cœur fidèle
Già in Cœur fidèle (1923), la storia di una donna contesa tra due
uomini, alle originali soluzioni tecnico espressive si affianca
l’analisi dei sentimenti e delle dinamiche psicologiche, in cui gli
sguardi, i gesti, gli atteggiamenti dei personaggi si compongono
in un poema lirico che anticipa il successivo «realismo poetico».
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I lavori di Epstein si distinguono anche per l’amore nella
rappresentazione dell’elemento naturale, che emerge
prepotentemente nei film girati in Bretagna come Finis terræ
(1929), o Mor vran (1930).
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La casa Usher
Da ricordare La caduta della casa degli Usher (1928), uno degli
ultimi capolavori della stagione impressionista. Versione
cinematografica di un racconto di Poe, il film affida alle immagini
molte sensazioni costruendo un’inquietante atmosfera di terrore.
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Le tempestaire
Ne Le tempestaire 1948, il realismo fantastico di Epstein - ancor
oggi considerato il regista francese più geniale degli anni Venti -
mostra il suo lato migliore mediante la storia di un mago che
placa la tempesta. Qui troviamo uno dei tratti caratteristici del
lavoro di Epstein, che lo definiva il «carattere peculiare del
cinema», cioè una sorta di misticismo della cinecamera che
scatena l’intrusione del soprannaturale nel reale.
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Ritmo visivo
Trascinati dall’attivismo di Abel Gance, dalla «scoperta» del
montaggio e dal timore di restare imprigionati in una specie di
virtuosismo contemplativo, gli “impressionisti” scoprono perciò
ben presto anche la relazione tra le immagini (all’interno della
singola azione e tra le diverse riprese) e imparano a sondare le
possibilità «ritmiche» del montaggio, prefigurando una visione
dinamica in cui il ritmo visivo può diventare un “principio
strutturale” completamente alternativo all’esposizione narrativa.
Marcel L’Herbier dirige Brigitte Helm sul set de
L’argent (Autour de L’argent, Jean Dréville, 1928)
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Cinema «puro»
Questa idea opera un
passaggio dal cinema
impressionista al cinema
«puro» (depurato cioè da
elementi non
cinematografici, di tipo
drammatico o documentario)
teorizzato da Henri
Chomette e alla «sinfonia
visiva» su cui si diffonde
ampiamente Germaine
Dulac nei suoi scritti.
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Cinema «astratto»
L’investimento ossessivo sulla
visualità conduce, passando per i
concetti di «sinfonia visiva» e
«cinema puro», allo sganciamento
da qualunque vincolo narrativo
tentato in Germania, negli stessi
anni, da Eggeling, Ruttmann e
Richter e, in Francia, dagli adepti
del surrealismo e del dadaismo,
unificabili nella definizione del
critico tedesco Rudolf Kurtz di
«cinema astratto» o «assoluto».
Hans Richter
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Cinema «astratto»
Si tratta di prodotti realizzati in
modo più o meno artigianale da
pittori e artisti tesi a superare i
limiti della pittura tradizionale
adottando procedimenti tecnico-
linguistici che avevano la luce
come mezzo d’individuazione delle
forme, prodotti che si presentano
perlopiù come «geometrie
animate», in un susseguirsi di
movimenti e metamorfosi di forme.
Viking Eggeling
Symphonie Diagonale (1924)
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Comunque, il cinema impressionista non sarà mai risucchiato
dalla voglia di depurare l’espressione cinematografica da ogni
conato drammatico e narrativo, al contrario di ciò che accade nei
territori di confine del cinema d’avanguardia o nelle opere di
artisti che puntano a condurre il mezzo verso livelli di astrazione
insostenibili per il pubblico normale e spesso attraversati da una
ricerca di senso oscura, provocatoria e cervellotica.
Ghosts Before Breakfast (Vormittagsspuk)
Hans Richter, 1928
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La ricerca di uno stile più elaborato, accanitamente perseguita
dagli impressionisti, ha come principale risultato il superamento
della considerazione del cinema come puro divertimento per il
pubblico in direzione di un più maturo coinvolgimento emotivo
degli spettatori, finalmente chiamati a partecipare anche alla
espressione di una precisa istanza artistica.
Kiki de Montparnasse in Ballet mecanique (1924)
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Formalismo e critiche
Naturalmente questo processo di indubbia crescita né assume
un carattere organico, a causa della poliedricità dei suoi adepti,
né produce esiti integralisti, per via della confluenza, a fianco
delle evoluzioni tecnico-linguistiche, di esigenze di tipo
commerciale e di vicinanza al gusto comune.
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La spinta impressionista fornisce infatti un punto di riferimento
importante per le elaborazioni dei formalisti russi, che però ne
denunciano precocemente i limiti: un’impostazione ancora
troppo legata al singolo oggetto e alla singola inquadratura, e
una persistenza dell’attenzione al dato materiale, un residuo
implicito di naturalismo, che impediscono ai francesi il pieno
sviluppo del discorso sul piano della «costruzione filmica», ossia
del montaggio.
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L’etichetta impressionista spesso non è applicabile all’intero film,
ma solo a poche sequenze. L’attenzione per le soluzioni visive
insomma non si salda sempre a quella per i contenuti, dando
luogo a un uso «miracolistico» della macchina da presa, come
se la tecnica da sola potesse risolvere tutti i problemi estetici e
formali. La tendenza al naturalismo zoliano, talvolta appoggiata
su trame di estenuante melodrammaticità, rischia insomma
sovente di seppellire l’interesse per la realtà quotidiana sotto le
coltri del formalismo tecnico e del calligrafismo letterario.
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Registi come Gance, poi, fanno della spettacolarità il cardine
della costruzione filmica, con risultati a volte straordinari ma
anche con notevoli scompensi stilistici. Il triplo schermo pensato
per Napoléon, con le due immagini laterali speculari a quella
centrale, colloca ambiguamente il suo stile a metà strada fra la
wagneriana opera d’arte «totale» e una sterile pomposità.
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La maggior parte degli autori, inoltre, affianca alla propria
produzione artistica, spesso autofinanziata, quella più
commerciale e con l’avvento del sonoro, che comporta costi
molto più elevati, le esigenze dell’industria cinematografica, più
interessata a un cinema da botteghino, riprendono il
sopravvento, imponendo scelte necessariamente svincolate
dalla pura sperimentazione formale.
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Così, sul finire degli anni Venti, la stagione dell’impressionismo
si spegne, anche per la prematura scomparsa, nel 1924, del suo
mentore Louis Delluc, per lo scarso seguito del pubblico, tranne
poche eccezioni, e anche per l’incapacità di raggiungere una
matura cifra stilistica unitaria, favorita dall’inflazione di idee e
tecniche e dall’indulgere in eccessi intellettualistici e astratti.
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Comunque la sua storia, lunga dieci anni, porta l’impressionismo
ad essere il movimento più longevo tra quelli che attraversano
l’Europa negli anni Venti, che lascia una nuova coscienza della
ricchezza del nuovo linguaggio visivo, a livello teorico e pratico,
e fornisce una base fondamentale alle successive rivoluzioni
estetiche; molte delle sue soluzioni tecniche, diventate di uso
comune, travasano nel realismo poetico che dominerà il cinema
francese nel decennio successivo.